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Alita, l’angelo della battaglia

La fantascienza cinematografica sulle tematiche “cyber” appare oggi come riavvolta su se stessa, ne è prova questo Alita – l’angelo della battaglia” tratto dal manga di Yukito Kishiro, progetto accarezzato da James Cameron vent’anni fa. Poi sono spuntati Titanic e Avatar e l’autore non ha più avuto tempo da dedicare alla guerriera cyborg. Passato il compito a Robert Rodriguez, Alita ha preso corpo grazie alle movenze di Rosa Salazar e alle magie della motion-capture che rende la protagonista ben più umana dei suoi partner in carne ed ossa (in primis l’insipido innamorato Hugo).

Vent’anni fa questo film avrebbe avuto maggiori possibilità di innovazione, oggi si limita ad offrire un mix di consuetudini, citando a destra e manca da Metropolis all’inevitabile Blade Runner, ma anche Ghost in the Shell e pure un cult come Rollerball di Norman Jewison (l’originale del 1975 non lo scialbo remake del 2002) del quale riprende le vorticose gare su pattini a rotelle.

In un mondo tutto ferro e lamiere, dominato dall’ultima città sopravvissuta, Zalem, che se ne sta bella sospesa in aria ed è sogno e desiderio di ogni abitante della Città del Ferro (ma cosa c’è a Zalem non ci è dato sapere, sempre che non salti fuori un sequel visti i “sospesi” lasciati dal film), uno scienziato (Christoph Waltz) trova i resti di un sofisticato cyborg e ricostruisce una abile e potente guerriera, Alita, che cerca in tutti i modi di ritrovare le tracce dimenticate del suo passato. Il film si muove, non annoiando, tra gare senza esclusioni di colpi, caccia al cyborg e interessi economici, mentre dall’alto continua a “piovere” metallo e ci sono molti esseri umani divenuti “miscela” di carne e metallo. Alita è nuova e diversa, non lo è il film ma visto che Cameron ci fa penare per il sequel di Avatar, ci accontentiamo.