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In affascinato ascolto della Parola

Vorrei tratteggiare, con affetto amicale e fraterno, la figura di Agostino Gasperoni, uomo di Dio e ministro della sua Parola.
Ne evocherò lo stile, convocando due fondamentali della ratio cristiana: le istanze teologale e teologica.
Il nucleo incandescente del suo profilo pare infatti costituirsi sulle armoniche di una duplice movenza. Vanno anzitutto ascoltate le note della sua partitura spirituale, lì dove la sua stessa esistenza si è radicata. Si evidenzieranno, allora, anche quelle linee di forza, che, a mio giudizio, hanno strutturato il suo impianto teologico.

Cura e grevità
Il carattere teologale dell’esistenza di don Agostino emerge, discreto eppure inconfondibile, dallo spazio dei suoi giorni, anche da quello fattosi angusto e doloroso – il tempo della malattia. E si attesta sulla base di un’ulteriore coppia di figure, ossia cura e grevità.
La prima è da intendersi quale urgenza di una paternità “materna” verso i fratelli e le sorelle. Poiché “Gesù si è fatto uomo, non si è fatto libro!”. Da ciò viene la sua autentica passione per la formazione delle coscienze, declinata nel favorire una sempre più profonda conoscenza della Parola.
La seconda figura, invece, si riferisce direttamente ad un tratto tipico dell’interpretazione offerta dall’esegesi di don Agostino. Per il quale, “per interpretare la Parola bisogna far tacere la testa e far parlare il testo”. Al centro della narrazione evangelica si staglia, secondo lui, l’espressione ebraica Kabod tradotta con “gloria” (di Dio).
Nel suo campo semantico s’intessono l’idea luminosa del dono di (che è) Dio con l’inaggirabile serietà dell’incondizionato, proprio della sua natura. Senza timore negava provocatoriamente l’esistenza della buona notizia, qualora con ciò si circoscrivessero pensieri e spunti, buoni magari per ricamare una spiritualità effervescente, disincarnata tuttavia e disancorata dalla storia.

Ironico e generoso in umanità La bellezza del Vangelo, invece, è la sua grevità: la vocazione a farsene carico; il peso inaudito della mite forza da esso posseduta.
La sagace ironia, di cui Agostino è stato portatore sano, non contraddice affatto l’importanza della posta in gioco; anzi, ne è stato tratto concreto. Generoso in umanità e lieto di giocarla, ha vissuto un costante spossessamento di sé, tanto nel servizio scientifico alle Scritture, quanto nel suo quasi istintivo far spazio all’appello dello Spirito. Capace di innescare processi liberanti, sprigionava generatività di legami, non volendo trattenere nulla per sé, e nessuno a sé. Profondamente convinto della (e dalla) efficacia di una vera e propria sacramentalità relazionale, vedeva nell’altro l’imminente venire della grazia che salva, mediata dall’immanenza di quella storia singolare. Il kairòs di questa signoria ricorda la celebre immagine di W. Benjamin: da una porta speciale, spalancandosi all’improvviso, il Messia in persona apparirà.
La sintonia sui passaggi di Dio permetteva al “don”, infine, di attraversare con fiducia gli smisurati abissi della unicità altrui, come anche il mistero nascosto nei propri giorni.
L’impianto teologico che dimensiona lo stile di don Agostino – la seconda istanza –, può essere modulato a partire da altre tre categorie: ospitalità, bellezza e capacità di apprendimento.

Il suo “impianto teologico”
L’ospitalità nell’umano comune, anzitutto. Il suo accompagnamento teologico è stato rigorosamente situato nel qui-e-ora, “tra i suoi”. Al cuore del suo impianto vi era il discernimento della situazione storico-culturale, in cui la fede solo accade.
E, insieme, il traghettamento di singoli e comunità verso una responsabilità in prima persona della fede cristianamente intesa.
La seconda categoria è il dono di abitare la bellezza del creato. Significa seguire il movimento “estetico” della Parola di Dio, che, non curandosi di sé, si sporge verso il destinatario. L’intento teologico di Agostino risiedeva, pertanto, nell’iniziare (generare!) alla formatività della bellezza tout court. Per accenderne l’esperienza il “traghettatore” lasciava essere se stesso niente più – ma anche niente meno – che traccia affezionata, per l’invenzione di ciascuno della propria unicità.
In ultimo, mediante la terza categoria, in quanto ascolto e apprendimento del (e dal) reale, don Agostino si disponeva a partire dalla interrogazione dell’altro. Incurante se ciò lo costringeva a riconfigurare l’ordine delle priorità e lo schema del suo discorso teologico.

Marco Casadei