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Accademia versus innovazione

Al centro, il soprano Evgenia Murareva e il tenore Alexey Dolgov © Eric Bouloumie

Ripreso a Bordeaux Il Demone di Anton Rubinstein nell’allestimento del Teatro Helikon di Mosca con la bella regia di Dmitry Bertman  

BORDEAUX, 31 gennaio 2020 – Inteso come perenne conflitto fra bene e male, il demoniaco ha esercitato enorme influenza su tutta la cultura ottocentesca: letteraria in primo luogo, ma pure musicale. Declinato secondo molteplici varianti. Se in area tedesca, e non solo, il Faust di Goethe è stato un riferimento imprescindibile, capace d’ispirare innumerevoli compositori, per il mondo slavo sarà Il demone di Lermontov, pubblicato dopo numerose redazioni nel 1856, ad esercitare un peso analogo.

Subì il suo fascino un musicista come Anton Rubinstein, ricordato non tanto per il monumentale catalogo compositivo accumulato in quasi mezzo secolo d’attività, ma noto soprattutto come virtuoso di pianoforte – sulla scia dei grandi concertisti romantici – oltre che come maestro di Čajkovskij e fondatore, a San Pietroburgo, del primo conservatorio russo.

Il soprano Evgenia Murareva, la principessa Tamara © Eric Bouloumi

Con l’adattamento librettistico di Pavel Viskovatov, Il demone andò in scena per la prima volta al Teatro Mariinskij nel 1875. Non fu esattamente un successo: troppo evidenti le influenze della musica europea, in anni dove il gruppo dei Cinque rivendicava la libertà da ogni accademia, ribadendo la necessità di valorizzare l’anima russa anche in musica. E se quest’opera ha continuato a circolare nel tempo – non in Italia, però – lo si deve al grande Fëdor Šaljapin e al suo carisma interpretativo.

Tre anni fa l’Helikon di Mosca ne ha messo in scena una nuova versione, che adesso è stata ripreso all’Opéra National di Bordeaux. Lo spettacolo porta ovviamente la firma di Dmitry Bertman, demiurgo del Teatro Helikon, che ha concepito un allestimento molto semplice ma di grande efficacia visiva: merito principale della sua regia è quello di aver creato grumi di tensione drammatica che, invece, latitano nella scrittura di Rubinstein. La scena fissa di Hartmut Schörghofer (autore anche dei bei costumi senza tempo) mostra una gigantesca sfera cangiante su cui vengono proiettate immagini, suggerendo l’idea di un telescopio che consente di vedere ciò che normalmente è invisibile agli umani. I personaggi si muovono – o meglio, scivolano – lungo la parete ricurva, ma in realtà ogni movimento è accuratamente calibrato dalle coreografie di Edwald Smirnoff. La potenza di alcune immagini è così destinata a imprimersi nella memoria: basterebbe pensare ai mimi con le teste da lupo e, ancor più, al drappo rosso che avvolgeva il cadavere del fidanzato di Tamara, su cui la fanciulla si accascia in lacrime, in modo del tutto antirealistico ma non per questo meno struggente. Bertman riesce poi a cogliere sfumature vagamente buffe, che la musica – troppo presa a descrivere in modo quasi didascalico il contenuto del libretto – non sempre riesce a far affiorare. A parte alcuni tagli nelle parti danzate e corali, l’intervento drammaturgico più incisivo riguarda il ruolo dell’Angelo, concepito da Rubinstein per voce femminile, e qui invece affidato a un controtenore: una scelta finalizzata, da un lato, a rendere più plausibile lo scontro con il Demone per aggiudicarsi l’anima della bella Tamara e, dall’altro, a sottolineare l’ambiguità della distinzione fra bene e male. Lo si scoprirà chiaramente nel finale, quando l’Angelo indossa la giacca abbandonata dal Demone, ormai destinato a errare nel nulla, sostituendosi idealmente a lui.

Determinante il contributo degli interpreti: un cast formato da numerosi artisti russi integrati con cantanti francesi. Protagonista il baritono Aleksei Isaev, un Demone tormentato e a tratti dolente, dalla voce ben sonora in alto, un po’ meno quando la scrittura scende nella zona più grave, come accade nel grande monologo. Il soprano Evgenia Murareva ha affrontato con sicurezza gli arabeschi della sua aria d’esordio, e che ricorda così da vicino la vocalità italiana, imprimendo una discreta ricchezza di accenti a un personaggio in bilico fra le lusinghe del Demone e la paura dell’ignoto. In possesso di ottimi mezzi – facilità di emissione e bella voce squillante – il tenore Alexey Dolgov è stato uno spavaldo principe, promesso sposo di Tamara. Espressivi e sempre ben timbrati entrambi i bassi: Luc Bertin-Hugault, servitore del principe, e Alexandros Stavrakakis, padre della protagonista, mentre nell’immancabile ruolo della nutrice si è fatta apprezzare Svetlana Lifar per il bel timbro contraltile. Infine, il controtenore Ray Chenez, grazie a una pregevole omogeneità d’emissione, è apparso un convincente e siderale Angelo.

Paul Daniel, sul podio dell’Orchestre National Bordeax Aquitaine, di cui è direttore musicale da alcuni anni, ha impresso un andamento scorrevole e incalzante alla partitura, valorizzandone le ascendenze legate alla musica europea, a cominciare da quella tempesta che sembra presa dal Rigoletto verdiano. Una lettura che, da un lato, aiuta a individuare le coordinate di quest’opera, dall’altro ne evidenzia anche il limite principale.

Giulia Vannoni