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Aborto: perdonarsi per essere perdonate

14 donnaDisperataPrega-755x491.jpg.pagespeed.ic.cTnBz9a4F7Una ferita che sanguina, un baratro in cui si precipita affondando come nelle sabbie mobili. “Per me non ci può essere né misericordia né perdono”. “Io non riesco a perdonarmi”. “Ho ucciso mio figlio. Una parte di me è morta con lui”. Inespresso, negato, soffocato se non addirittura socialmente e culturalmente “proibito”. È il dolore sordo che colpisce molte donne che hanno abortito volontariamente, quando si rendono conto della gravità del gesto compiuto. Si pentono, e se sono credenti cercano il perdono di Dio.

“Vorrei ribadire con tutte le mie forze – scrive Papa Francesco al n. 12 della Misericordia et misera, la Lettera apostolica diffusa al termine dell’Anno straordinario della misericordia con la quale, tra l’altro, concede stabilmente a tutti i sacerdoti la facoltà di assolvere il peccato di aborto – che l’aborto è un grave peccato, perché pone fine a una vita innocente. Con altrettanta forza, tuttavia, posso e devo affermare che non esiste alcun peccato che la misericordia di Dio non possa raggiungere e distruggere quando trova un cuore pentito che chiede di riconciliarsi con il Padre”.

La testimonianza della psicoterapeuta Cristina Cacace
Ma non è così semplice. Spesso l’angoscia rimane, e le confessioni sacramentali si ripetono, una dopo l’altra, perché si fa fatica a sentirsi abbracciare dalla grazia del perdono. È l’esperienza della psicologa e psicoterapeuta Cristina Cacace, che accompagna verso la “guarigione” donne che hanno abortito volontariamente. “Il carattere traumatico dell’aborto, accertato da decenni in diversi Paesi anglosassoni che dispongono di un’ampia letteratura scientifica in materia, in Italia è ancora misconosciuto”, ci spiega.

Poche le ricerche, scarsa la consapevolezza che dietro disturbi alimentari, difficoltà di relazione, incubi, ansia, pensieri ossessivi, depressioni, attacchi di panico, abuso di sostanze, comportamenti autolesionistici e in alcuni casi tentativi di suicidio si cela spesso il dolore per una gravidanza interrotta volontariamente, magari molti anni prima. Insomma, il prezzo psicologico è altissimo. A pagarlo, secondo Cacace, “è, con diversi gradi di severità, il 44% delle donne”, a prescindere dalla religione o dalla cultura di appartenenza perché l’attaccamento al feto “inizia dal concepimento, e l’interruzione di questo legame unico e irripetibile è uno strappo violento che molte, magari dopo anni, percepiscono come l’uccisione del proprio bambino”.

Alcune donne mettono in atto un processo di rimozione come meccanismo di difesa per tentare di tornare a vivere come prima. Ma è un’illusione che rischia di scindere la personalità in due; una parte continua a vivere come se niente fosse, un’altra rimane ‘fissata’ sul trauma. Altre invece si autopuniscono in modo più o meno consapevole, e per “espiare” rinunciano a tutto ciò che può dare felicità. Ma tra le pazienti della dottoressa Cacace ci sono anche quelle che esordiscono così:
“Mi sono confessata diverse volte ma non riesco a trovare pace”.
Questo perché, spiega la psicoterapeuta, “solo attraverso l’elaborazione del trauma e il perdono di sé la donna riesce a ricevere il perdono di Dio, che altrimenti rimane un fatto di cui è consapevole a livello razionale ma che non ne tocca l’emotività”. Una “rinascita” è possibile grazie alla terapia Emdr (Eye movement desensitation and reprocessing), tecnica di elezione indicata nelle linee guida dell’Oms per curare il disturbo post-traumatico da stress che la psicoterapeuta, ricercatrice presso l’ Istituto di terapia cognitivo interpersonale (Itci)  applica da anni. “Ognuno di noi – spiega – ha la capacità innata di ‘digerire’ le emozioni legate ad eventi disturbanti, di raccontarle finché le sentiamo andate ‘lontane’. Nel trauma, invece, questo processo rimane bloccato”.

“Grazie ad una stimolazione uditiva o visiva, entro nel ricordo con la paziente che, mettendosi in contatto con il suo inconscio, rivive tutta l’esperienza, compreso il ricordo devastante della sala operatoria”. Un processo di elaborazione doloroso ma necessario, durante il quale la parte “adulta” in seduta rivede la ragazza che ha abortito, ne riconosce la fragilità, ne prova compassione e da lì scaturisce il perdono che fa rinascere.
“Molte donne addirittura ‘incontrano’ il loro bambino al quale hanno spesso dato un nome, che le saluta e le perdona”. Solo allora possono “lasciarlo andare” e perdonare se stesse. Solo allora possono accogliere pienamente il perdono di Dio.
Forse però i due percorsi possono procedere insieme: se il Padre mi perdona, posso perdonarmi anch’io. E lo snodo è il passaggio dal senso di colpa che genera solo rimorso, al senso del peccato e al pentimento. Ma occorre credere veramente nella Sua misericordia che è smisurata, regale, e per questo non dà scampo.

Giovanna Pasqualin Traversa