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A Corinto l’inizio delle lettere

L’obelisco che si trova al centro di piazza San Pietro è l’unico resto visibile dell’antico circo di Nerone sul colle Vaticano, dove fu ucciso san Pietro. È per altezza – 23,20 metri – il secondo di Roma; lo portò a Roma da Eliopoli l’imperatore Caligola. Dovette usare una nave gigantesca fatta costruire appositamente. Su questo obelisco sono nate molte leggende popolari: si affermava che la sfera – un globo bronzeo posto in cima – contenesse le ceneri di Giulio Cesare e che la croce che sormontava l’emblema della Famiglia Chigi, contenesse un frammento della croce di Gesù; nella Roma papalina, poi, si pensava che chi fosse riuscito a passare sotto l’obelisco, tra i leoni, avrebbe ottenuto la remissione dei peccati; pittoresche e simpatiche fantasie popolari! L’obelisco di piazza San Pietro è un obelisco del tutto particolare: non è coperto da iscrizioni egizie, e nemmeno da geroglifici perché è stato realizzato dagli antichi romani, mentre erano in Egitto, su commissione dell’Imperatore Caligola. Anticamente l’obelisco si trovava sulla destra dell’attuale Basilica, dove ci sono i giardini vaticani. Fu Sisto IV a far spostare l’obelisco. Per il suo trasporto furono necessari 4 mesi e l’impiego di numerose macchine e uomini. È proprio davanti all’obelisco che, una volta usciti dalla nostra visita ai Palazzi vaticani, Paolo mi obbliga a fermarmi.

Che effetto prova nel vedere queste trasformazioni della Roma dei suoi tempi? Forse un po’ di nostalgia?
“Siete ben curiosi voi latini” dice con un sorrisetto malizioso, “da un lato vi portate dentro un desiderio di grandezza e di impero, dall’altro siete disposti a sacrificarlo per ciò che è bello… avete dentro il sangue l’imperativo di durare nel tempo, ma siete anche disposti a fermare tutto per la bellezza di un sorriso o di un tramonto. Come diceva il vostro poeta Orazio? Exegi monumentum aere perennius – Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo – e si riferiva ad una sua poesia… ce la facevano imparare a scuola”.

Io rimango un po’ imbarazzato: in primo luogo mai nessuno mi aveva così richiamato la mia pur remota latinità, in secondo luogo anch’io ho studiato a scuola quella poesia (chissà cosa direbbe la mia prof. di latino sulla metrica perfetta recitata da San Paolo!). “Vede?” prosegue l’Apostolo “voi latini avete proprio questa idea di parole scolpite come un monumento. Per noi ebrei la parola è realtà, vita vissuta e quindi narrata. Lei lo sa bene, che in ebraico abbiamo un solo termine per esprimere le parole e i fatti concreti. Per i greci la parola è un pensiero, uno stato d’animo, una emozione fissata con precisione nella mente perché possa essere detta con le labbra. Per voi latini ogni parola è una fotografia, un modo per esprimere, con rigore, le situazioni e le relazioni tra gli uomini, insomma per voi davvero la parola è comunicazione. Ho ancora in mente le belle iscrizioni imperiali tutte squadrate sui frontoni dei templi e dei palazzi… Io sono ebreo figlio delle scritture, ho sempre scritto in greco amando quella lingua per tutte le sue capacità espressive, ma l’idea di scrivere per seguire la vita delle mie comunità mi è venuta dai miei contatti col mondo romano… parole come monumenti, parole che dicono molto in poche righe, parole che comunicano in modo indelebile”.

Lei è soprattutto conosciuto per le sue Lettere. Come le venne in mente di scrivere alle comunità? Quale fu la prima?
“Già nell’Antico Testamento ci sono delle Lettere, non era un fatto nuovo. Ma il movente più immediato fu proprio a Corinto nell’anno 51. Soggiornavo in casa di Aquila e Priscilla, una coppia di giudeo-cristiani fuggiti da Roma in seguito all’editto dell’Imperatore Claudio (49-50 d.C.) contro gli ebrei. Si trattava di due persone molto facoltose e sensibili, facevano il mio stesso tipo di commercio, ma erano un po’ tristi perché non avevano figli. Nella fede in Gesù trovarono una risposta a questo loro dramma famigliare. Misero a disposizione del vangelo tutto, anche la loro stessa vita: educarono al battesimo tantissimi giovani e adulti e soprattutto erano solleciti con noi missionari. Una coppia che viveva una fecondità spirituale ben più grande di quella naturale! E davvero non era un ripiego. Fu forse discutendo con loro, una sera che pensavo a come avevo lasciato la comunità di Tessalonica in balìa di una persecuzione, e sentivo la ferita della lontananza dei miei amici Silvano e Timoteo, che mi venne l’idea di scrivere. Se Aquila e Prisca pur non avendo figli erano così fecondi nello spirito, allora anch’io, pur non potendo vedere i Tessalonicesi potevo, nello Spirito, comunicare con loro”.

Fu così che nacque la prima Lettera ai Tessalonicesi? Cioè la sua prima lettera in assoluto?
“In realtà mi ero già cimentato con la scrittura. Ma qui era diverso, sentivo una grande spinta a dettare parole belle ed importanti, però che lasciassero nel cuore di chi le leggeva una eco della pace del Signore. Non mi era fatica parlare di me, di loro e di Dio: ad esempio guardi qui nel capitolo secondo della Lettera (versetti 7-10) quando scrivo –siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari. Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il vangelo di Dio…-. E poi più sotto (versetti 17- 18) – Quanto a noi, fratelli, dopo poco tempo che eravamo separati da voi, di persona ma non col cuore, eravamo nell’impazienza di rivedere il vostro volto, tanto il nostro desiderio era vivo. Perciò abbiamo desiderato una volta, anzi due volte, proprio io Paolo, di venire da voi…-. Vede? Succede sempre così nella vita di un discepolo di Gesù, uno non pensa a ciò che succederà a come andranno le cose, se farà bene o se ci saranno grane, pensa solo a mettercela tutta perché il suo servizio a Dio sia vero”.

Se qualcuno le avesse detto che lei con quella Lettera stava incominciando a scrivere il Nuovo Testamento (infatti i Vangeli non erano stati ancora interamente composti) cosa gli avrebbe detto?
“Lo sa che lei mi fa domande mica facili! Non penserà mica che io quando scrivevo quella Lettera pensavo già alle varie edizioni della Bibbia! Io pensavo ai miei Tessalonicesi, al fatto che erano pochi, un po’ impauriti (nella Lettera cerco di infonder loro un gran coraggio) e neanche troppo preparati al peggio. Però nello stesso tempo sentivo che quanto stavo facendo piaceva a Dio, sì che lui voleva che io scrivessi quelle parole di vangelo, che io confortassi quella chiesa”.

Questo è quello che la teologia ha poi chiamato ispirazione dello Spirito Santo: lo scrittore sacro scrive come vero autore tutto ciò che Dio vuole sia scritto per la fede e la verità della nostra salvezza.
“Sì è così. Io esprimo questo concetto nella mia lettera (1,4-5) in questo modo: – Noi ben sappiamo, fratelli amati da Dio, che siete stati eletti da lui. Il nostro vangelo, infatti, non si è diffuso fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione, come ben sapete che siamo stati in mezzo a voi per il vostro bene -. La potenza dello Spirito che si nutre della convinzione profonda che viene dalla fede”.

E come fu accolta questa sua lettera?
Paolo fa una grande risata.“Bene direi… la leggete ancora!”. Quindi socchiude gli occhi come per ricordare.“Da come ricopiavano il mio scritto e se lo passavano di mano in mano tra i vari gruppi di cristiani ho capito che il Signore mi aveva messo nel cuore una bellissima idea. Se ci ripenso, oggi che avete tutta questa tecnologia! A volte dettavo al buio ed il povero fratello che mi faceva da scriba (allora nessuno di noi scriveva direttamente perché per scrivere sul papiro ci vuole molta tecnica) si ingegnava con una lucerna a trascrivere i miei pensieri. Poi mi piaceva però mettere anche una frase scritta di mio pugno… scrivevo grande perché avevo paura di forare il papiro (si veda Galati 6,21) però mi sembrava che così ero ancora più vicino alle mie comunità. Papa Giovanni XXXIII quando era ancora Vescovo a Venezia scrisse una cosa che io ho vissuto nel profondo: le parole mie che erano anche parole di Dio, passavano sulle mie dita, salivano sulle labbra, ed entravano nel cuore. Il cristiano deve proprio fare così: non è cristiano chi tiene la Bibbia solo in mano, essa deve arrivare sulle labbra con la preghiera liturgica ed entrare nel cuore e nella vita con l’Eucaristia. È il miracolo di Gesù, definitiva Parola di Dio fatta carne, che si compie ancora nella vita di ciascuno di noi. Non c’è parola di Dio se non incarnata. È stato vero per i profeti, per Mosè, per Abramo. Ed è vero per me e per ciascuno di voi. In Gesù tutta la scrittura diviene vera, vivibile, autentica e santa, come il pane che ha spezzato nell’ultima cena”.
(8– continua)

a cura di Guido Benzi